martedì 4 maggio 2010

Dagli Sbilf al bluetooth


Non è per dar torto alla Bibbia. Ci mancherebbe! Ma potrebbe anche darsi che l’evoluzione della specie animale fino alla nascita dell’uomo, non sia avvenuta in tutti i luoghi del globo terracqueo, allo stesso modo. Non metto in dubbio che nel Medio Oriente, dopo aver ordinato alla terra di produrre “esseri viventi secondo la loro specie”, Dio il giorno dopo abbia creato l’uomo a sua immagine. Ma da noi, in Europa prima dell’età dell’uomo, c’è stata quella dei piccoli uomini: la terra era popolata dagli Sbilfs e le acque dalle Agane. A Tolmezzo gli sbilf abitavano alle falde del monte Strabut, (che a quel tempo chissà come si chiamava), le Agane invece ai piedi della montagna nelle acque del But, che a quel tempo passava molto più vicino alla montagna, proprio ove oggi c’è il centro storico del paese. Chi volesse una conferma di questo assunto, può salire fino a Precefìc e, addentrandosi nel pianoro a mezza costa dello Strabut, troverà nell’atmosfera che vi si respira, una evidente e incontrovertibile prova della presenza nel luogo dei piccoli uomini, nella notte dei tempi.
La differenza tra gli Sbilf e gli uomini, non era tanto o non era solo nella dimensione del corpo. Erano degli uomini in miniatura, ma avevano la testa se si vuole anche più grande di quella degli uomini d’oggi, perché nel loro cervello si era sviluppata una grandissima capacità di pensiero. Gli uomini devono mediare con la parola o con la scrittura la comunicazione del loro pensiero, gli sbilf comunicavano direttamente. Il pensiero di chi voleva comunicare, si metteva immediatamente in relazione con il pensiero degli interlocutori, come se le onde del pensiero fossero onde radio
Nella evoluzione dai piccoli uomini agli uomini s’è persa questa particolare capacità di comunicazione. Derivava infatti dalla grande disponibilità degli sbilf a comunicare ed a rapportarsi in positivo con i propri simili. Diventando, con l’evoluzione, più consistente la massa corporea, ha preso sempre più rilievo la coscienza di sè, è diventato sempre più forte l’egocentrismo, sempre minore la disponibilità verso gli altri, e così anche la capacità di pensiero negli uomini si è chiusa in sé, è diventata capacità di riflessione più che di comunicazione. Obiettivo primario per l’uomo è diventato il proprio corpo e si è persa quella capacità di pensiero che faceva in modo che gli sbilf fossero tutti poeti. La capacità rimasta ora soltanto in qualche uomo eccezionale di saper cogliere e vivere la bellezza della natura, di godere nell’emozione nel rapporto immediato ed istintivo con la bellezza del creato.
Non è comunque che anche i piccoli uomini non avessero i loro problemi!... In particolare li angustiava l’impossibilità di conservare nel tempo il pensiero comunicato. Non conoscendo la scrittura e non avendo altre forme di registrazione, potevano comunicare solo in tempo reale e non in differita. Finchè non ci fu la invenzione di Gil e Tiz!...
Erano questi due Sbilf che vivevano in una grotta ai piedi dello Strabut, poco sopra l’attuale Museo Carnico. Tra l’imbocco della grotta e il greto del fiume passava un sentiero molto frequentato dai cani a passeggio. “Dovremmo riuscire ad inventare qualcosa del genere!” disse un giorno Tiz fra sé e sé.
“In che senso?” gli chiese Gil.
“Vedi! I primi fanno la pipì e quelli che vengono dopo la riconoscono. Se riuscissimo a far in modo che il pensiero si attaccasse alle cose, come la pipì dei cani, potremmo far in modo che quelli che seguono possano sentire il pensiero di chi li ha preceduti”.
Gil era un tipo che quando gli davi un input, gli si scatenavano i neuroni nel grande cervello. A forza di pensare gli venne la febbre, gli si sballarono tutti i valori, la glicemia gli andò alle stelle, ma alla fine pur stremato e sfinito ebbe ancora la forza di dire: “Ho trovato!”
“Che cosa hai trovato?” gli chiese Tiz, che, ormai quasi convinto di non poter salvare l’amico, si disperava per essere stato, con la sua domanda, la causa di tutto quel male.
Aveva trovato il modo di legare il pensiero ai dei punti che lui decise di chiamare punti di interesse! Presero così a segnare tutta la Carnia con il loro brevetto, e invitarono le Agane a ripetere i percorsi segnati da loro, riascoltando i loro pensieri. Loro due di giorno, come due cani, segnavano un nuovo sentiero, ed alla sera le Agane in folla uscivano dal But, per ripercorrere il sentiero accompagnate e suggestionate dai pensieri poetici che gli sbilf avevano legato ai punti di interesse.
Si ripeteva così ogni sera una scena di incredibile bellezza. Le fate dell’acqua uscivano dalla corrente, mentre gli ultimi riverberi di porpora del sole si spegnevano ad ovest sui Monfalconi e trasportate dalla brezza della sera, come uno sciame di farfalle, salivano le valli di Carnia traducendo in musica con le loro voci armoniose i pensieri suggeriti dagli sbilf. Una scena che si ripete forse ancora e che, come ho già detto, solo la sensibilità di quegli uomini eccezionali, che sono i poeti, può vedere…Deve essere infatti la scena che descrive Carducci nella poesia “In Carnia”:
De la But che irrompe e scroscia
elle ridono al fragor,
e in quel vortice d’argento
striscian via le chiome d’òr.
Questa leggenda mi è stata raccontata da persona degna di fede che abita nei pressi del luogo dove ci sarebbe stata la grotta dei due sbilf. Ma una conferma indiretta sul fatto che non è soltanto una leggenda mi viene dalla coincidenza per la quale proprio in quel posto, in ambiente che richiamava molto quello d’una grotta, gli uomini della ditta BoDi, hanno pensato ad un progetto che utilizza le moderne tecnologie per riproporre l’idea che hanno avuto, nello stesso luogo, ì due sbilf.
Agli sbilf che, come si è detto, erano poeti non ne è venuto nulla e neppure nessuno li ricorda, agli uomini di BoDi deve essere venuta invece una improvvisa ricchezza. Tant’è che si sono subito trasferiti in ambienti più luminosi e prestigiosi!!!
Per il “bene comune” c’è solo da augurarsi che come le Agane in folla seguivano i suggerimenti degli Sbilf, ci sia ora una folla di turisti che segue Bodì sui sentieri della Carnia diffondendo su tutto il territorio benessere e ricchezza.

(Favola scrittali 1°marzo 2010 in occasione del trasferimento di BoDi all’Agemont con i migliori auguri a Gil a Tiz e di riflesso a Stefano ed a tutti i collaboratori. Buon lavoro!)

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venerdì 26 febbraio 2010

La lavanda di Venzone.



Una volta, nel tempo prima della storia, la Carnia era abitata dagli Sbilfs e dalle Agane, le fate dell’acqua. Nella stretta di Venzone che prendeva il nome di porta della Carnia perché al tempo con questo nome si comprendevano anche le valli del torrente Fella, una colonia di Sbilfs si era insediata dove ora sorge il paese, mentre al di là dell’acqua del Tagliamento ove ci sono ora le case di Pioverno nelle grotte sotto all’attuale chiesa dell’Immacolata si erano insediate le Agane. La scelta non era stata casuale. A quei tempi si viveva secondo natura, non c’era la necessità di lavorare la terra, ma ci si doveva collocare dove la terra produceva i suoi frutti. Sulla sinistra del Tagliamento cresceva spontaneo il frumento il cibo preferito dagli Sbilfs. Sulla destra invece cresceva quella che oggi chiamiamo lavanda, il profumo preferito dalle Agane. A primavera la stretta tra il S.Simeone e il Plauris pareva la valle dell’eden con l’acqua limpida che si scioglieva in riflessi di cristallo, tra la distese dorate del frumento da una parte e del viola della lavanda dall’altra. Gli Sbilfs che credevano nella Madre Natura, avevano dato un nome femminile alle piante da cui traevano sostentamento e le avevano chiamate spighe. Le Agane che vivevano del profumo dei fiori avevano dato un nome maschile alle loro piante e chiamano spigo i gambi di quella che noi oggi chiamiamo lavanda.
Quando nel rincorrersi dei secoli iniziò la storia degli uomini le nostre montagne furono prima popolate dai Celti venuti dll’Est, e infine anche da queste parti arrivarono i romani a portare la civiltà con la guerra e gli eserciti. I soldati venivano reclutati da ogni parte dell’Impero. Fu così che arrivò nella piana di Venzone una legione tutta formata da Galati, i Celti dell’Asia Minore. Fra loro c’era un centurione di nome Venzo, finito a fare il militare per dimenticarsi le pene d’amore.
In patria era un alchimista innamorato del suo lavoro. Coltivava una pianta che i greci chiamavano nardo celtico, appunto perché coltivato dai Celti d’Asia minore, ed i romani invece lavandula spica. Dalle radici aveva imparato a distillare degli oli essenziali e dei profumi d’una delicatezza raffinata, e degli unguenti che avevano del miracoloso. Di lui si era innamorata una bellissima donna di nome Maddalena. Si erano sposati. Egli l’amava nel profondo del suo cuore, ma tutto preso dal suo lavoro la trascurava. Passava le notti a studiare nuove ricette, cercando le soluzioni più innovative per ricavare il massimo beneficio dalle virtù della pianta del nardo. Fu così che un mattina e non trovò più Maddalena in casa. La cercò invano per tutto il paese, ma invano. Si accorse che era sparito anche l’asino, e che era stato svuotato il magazzino nel quale teneva i suoi prodotti. Un amica della moglie gli riferì che s’era caricata i profumi e gli unguenti sull’asino e che era partita alla volta della Palestina, dove aveva sentito stava predicando un nuovo profeta di nome Gesù. Qualcuno sostiene sia la stessa donna di cui parla l’evangelista Luca raccontando che si era introdotta nella casa d’un fariseo ove Gesù si trovava a pranzo, “era venuta con un vasetto di olio profumato e stando dietro presso ai suoi piedi, piangendo cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di olio profumato”. Era conosciuta come una peccatrice ma per quel gesto Gesù le disse “Ti sono perdonati i tuoi peccati”. Forse il collegamento può essere fantasioso oppure no, dal momento che non si specifica di che olio profumato si trattasse. Ma in una scena analoga nella quale a ungere i piedi di Gesù d’olio balsamico è Maria di Betania, la sorella di Lazzaro il resuscitato, si dice espressamente che ha usato “una libbra di olio profumato di vero nardo” e quindi non si può escludere si sia trattato proprio dell’olio di Venzo..
Comunque il nostro essendosi trovato alla porta della Carnia, celta galata a dover combattere contro altri Celti, i Carni, entrò in crisi di nuovo e chiese di essere congedato ed ottenne la proprietà dei campi di lavanda che già dal tempo degli Sbilfs cresceva dove oggi sorge il paese di Pioverno. Prese dimora nella grotta che s’apriva nel rilievo sul quale sorge ora la Chiesa del paese. Grotta che era stata delle Agane, e che lo è ancora perché non è che le fate dell’acqua siano sparite, sono solo diventate invisibili per l’incapacità dell’uomo a vedere oltre la dimensione del reale, come è diventata invisibile la grotta perché l’imboccatura è crollata a seguito d’un dei terribili terremoti che hanno interessato ed interessano ancora il monte S.Simeone
Qui, non più distratto dalle grazie della bella Maddalena, riprese con nuova lena le ricerche sulle proprietà benefiche dello spigo e a forza di innesti ed impianti riuscì a sviluppare un nuovo tipo di pianta con maggiori proprietà terapeutiche. Mentre dal nardo celtico l’olio essenziale ed il profumo si ricava dalla radice, nella nuova pianta le proprietà benefiche si trasferirono nel fiore esaltandosi. Divenne in breve famoso in tutta la Carnia perché con i medicamenti tratti da questo nuovo spigo sapeva curare ogni tipo di malattia.
Per ogni tipo di dolore prescriveva dei bagni di spigo. Si deve lavare la parte malata, scriveva, e quindi prescriveva delle diverse composizione di acqua ed olio di spigo. Da militare aveva imparato la lingua latina e in latino le sue ricette iniziavano sempre con “lavanda est” si deve lavare, e così un poco alla volta gli uomini della Carnia presero a parlare di ricette di lavanda, e lo spigo finì per essere chiamato lavanda: la lavanda di Venzo, che in latino diventava appunto “Lavanda Venzonis”, termine oggi correttamente tradotto in italiano come “Lavanda di Venzone”. I botanici la chiamarono lavandula angustifolia per la caratteristica delle foglie strette, distinguendola dalla lavandola spica, detto anche nardo celtico o valeriana celtica, che si coltiva ancora nella montagna carinziana e viene utilizzata soprattutto nelle terme di Bar Kleinchirhheim.
A sentire l’attuale nome comune, di primo acchito viene da pensare che sia stato il paese a dare la denominazione alla lavanda, e invece la storia del legionario Venzo, dimostra il contrario in modo inconfutabile…Comunque anche nel caso dello spigo, le Alpi divennero confine e discrimine, il genere spica si continuò a coltivare al di là, mentre l’angustifolia si diffuse al di qua per tutto l’arco alpino fino alla Liguria per poi da qui debordare in Provenza.
I carnici son gente rude poco portata ai profumi: gli uomini nel bosco e le donne con la gerla, ma anche Carnia pur se è venuta meno, non è mai scomparsa l’usanza di coltivare la lavanda. Valentino Osterman in La vita in Friuli” scriveva alla fine dell’Ottocento che “è pianta benefica; si coltiva negli orti per raccoglierne i fiori che a mazzi vengono collocati tra la biancheria sia per il loro gradevole odore, sia perché si ritiene giovino a tener lontane le tignole l’incubo (calciùt) e le malie tentate contro il compimento dei doveri matrimoniali. Giova pure contro il mal di capo e di nervi, per curare le ferite e per regolare le funzioni muliebri. Ha maggiore virtù se colta nella famosa notte di S.Giovanni.
Con questa ultima annotazione il richiamo dell’Osterman a Venzo è evidente, perché ormai tutti gli studiosi concordano sul fatto che risalgono al Celti i riti della notte di S.Giovanni. Anche la messa in evidenza dei poteri sulle “malie tentate contro il compimento dei doveri matrimoniali” è probabilmente riconducibile a Venzo che nella solitudine della grotta di Pioverno, rimpiangeva di aver trascurato la bella Maddalena, che se n’era andata a far la peccatrice in Palestina.
A proposito! C’è qualcuno che sostiene d’aver letto nei soliti documenti di cui non si trova ormai traccia che lo stesso nome di Pioverno è legato al legionario. Alla sua morte infatti sarebbe stata costruita una chiesetta dedicata al Pio Venzo, delle cui fondamenta risulterebbe si sia trovata traccia quando è stata costruita la Chiesa attuale. Nei secoli poi, come è capitato spesso, il nome sarebbe stato storpiato in quello di Verno.
Ma forse queste sono illazioni di storici che si lasciano guidare dalla fantasia invece che dall’amore per la ricerca. Certo è invece il fatto che Venzo teneva a precisare, consegnando le sue ricette, che per trarne i massimi benefici, gli oli essenziali ed i profumi di spigo o lavanda che dir si voglia, devono essere diluiti nell’acqua delle sorgenti popolate dalle Agane. In Carnia ce n’è diverse, ma sembra che sopra tutte egli consigliasse l’acqua di Applis ad Ovaro, dove l’acqua sgorga fresca e purissima direttamente dal terreono.
Per inciso si deve ricordare che come sono presenti nel mondo degli umani le Agane, così sono ancora presenti gli sbilf anche se invisibili. Come è noto ce n’è di diversi tipi e nomi come il Gan, il Mazarot, il Bagan, e il Pavàr . Ci sono quelli favorevoli agli uomini e quelli pericolosi come il Cialciùt che nell’era moderna s’è montato la testa, ha cambiato nome e si fa chiamare “stress” all’inglese. Gira di notte per le case degli uomini diffondendo la malattia della depressione. Come già ricordava l’Ostermann il potere benefico della lavanda si riscontra soprattutto nel tener lontano gli incubi provocati dai Cialcùt.. In termini moderni, come è ormai ampiamente dimostrato da tanti studi, si direbbe che ha dei poteri quasi magici per vincere il male del secolo: la depressione causata dallo stress.