lunedì 15 dicembre 2008

L'addio di Pilato a Saulo.

Commentando il mio romanzo "La verità ci rende liberi" che ha come protagonista Pilato un internauta mi ha consigliato la lettura del Maestro e Margherita di Bulgakov. Il suggerimento è intelligente, e lo ringrazio, ma l'avevo preceduto, al punto di inserire una pagina copiata da Bulgakov nel mio romanzo (denunciando il fatto in nota). Riporto per lui il brano del romanzo, invitandolo a scoprire dove inzia e finisce la citazione di Bulgakov.
Da "La verità ci rende liberi" cap. 23 - L'addio a Pilato.

Ma se Pilato aveva convocato d’urgenza Saulo prima di partire, non lo aveva fatto per discutere su come il nuovo discepolo aveva intenzione di impostare la diffusione del Vangelo. Prima di partire avrebbe voluto per l’ultima volta cercare di capire l’essenza di quel messaggio, cercare di darsi una risposta alla domanda che gli si era fissata nella mente da quella maledetta sera: “Che cosa è la verità”.Era venuto malvolentieri in Palestina. Aveva considerato l’incarico una sorta di punizione, se non di condanna. Aveva vissuto quegli anni nella speranza e nell’attesa d’un nuovo incarico, ed ora che l’incarico era arrivato, gli dispiaceva quasi di dover partire.Alle volte girando nel deserto, la veste si impiglia negli arbusti, dovendo proseguire, la veste si strappa e in quel brandello di veste è come se restasse qualcosa di noi. Quella domanda senza risposta era come un brandello di sé, rimasto nel deserto della Palestina. Anche se fosse finito a governare tra le nevi della Britannia, quella domanda rimasta impigliata tra le spine della Palestina, l’avrebbe inseguito fino alla morte. A meno che non fosse riuscito a darsi una risposta.Prima dell’arrivo di Saulo c’era stato un violento temporale, ma adesso il sole era tornato su Gerusalemme e, prima di andare ad affogare nel Mediterraneo inviava raggi di addio alla città odiata dal governatore e indorava i gradini dell’ingresso del palazzo. La fontana del cortile si era completamente ripresa e cantava a piena voce, i colombi erano ritornati sulla sabbia del cortile, tubavano, saltavano i rami rotti dalla furia del temporale, beccavano qualcosa nella sabbia bagnata. Sul tavolo preparato sotto il fresco del porticato, fumava un piatto di carne.“Ma cosa vuoi che ti dica che non ti abbia già detto?” disse Saulo avvicinandosi al tavolo assieme a Pilato.“Nulla finchè non ti sarai seduto ed avrai bevuto un po’ di vino,” rispose gentilmente Pilato, sdraiandosi, e indicò l’altro letto. Saulo si sdraiò e un servo gli versò del denso vino rosso. Un altro servo, chinandosi con cautela sulla spalla di Pilato, riempì la coppa del governatore. Poi questi allontanò i due servi con un gesto.Mentre Saulo mangiava e beveva, Pilato, sorseggiando il vino lo guardava attraverso le palpebre socchiuse. Avrebbe voluto entrare nella sua mente, capire che cosa veramente intendeva quando parlava d’essere stato illuminato.Saulo non rifiutò neppure una seconda coppa di vino, inghiottì con evidente soddisfazione un paio di ostriche, assaggiò la verdura lessa, mangiò un pezzo di carne. Saziatosi, lodò il vino:“Ottimo vitigno, governatore, ma non è Falerno?”“Cecubo di trenta anni,” replicò affabile Pilato.Saulo si mise una mano sul cuore, rifiutò di mangiare altro, affermò di essere sazio. Allora Pilato riempì la propria coppa, l’ospite lo imitò. Entrambi rovesciarono un po’ di vino nel vassoio e il procuratore disse a voce alta, alzando la coppa:“Per noi, per te, Cesare, padre dei romani, il più caro e il più buono degli uomini!”Dopo queste parole vuotarono la coppa e gli schiavi africani tolsero le pietanze dal tavolo lasciandovi la frutta e le caraffe. Di nuovo il procuratore li allontanò con un gesto, e rimase solo con il suo ospite nel porticato del palazzo. Solo allora Saulo notò che sul tavolo c’era una terza coppa.“Per chi è?” chiese incuriosito, immaginando che dovesse arrivare qualcun altro.“Per nessuno,” rispose serio Pilato. “E’ questa coppa il motivo per cui ti ho fatto chiamare. Non te ne avevo mai parlato. Ma forse non è un caso che sia qui… Forse la verità è come un mosaico, fatto di tante piastrine in se insignificanti, ma che ricomposte formano una figura. Me l’ha data Pietro uno dei seguaci di Jeshù, arrestato con lui in quella famosa notte. Ho visto che ci teneva, ma pur di salvarsi quella notte mi avrebbe consegnato anche sua madre. Mi ha raccontato che era la coppa nella quale Jeshù aveva bevuto la sera prima, accompagnando il gesto con delle parole misteriose.”
[1] La scena è una citazione-copia dal Maestro e Margherita di Bulgakov

mercoledì 10 dicembre 2008

La fine dei Carni.


Continuano a dirmi che le storie che scrivo sui Celti in Carnia me le sto inventando. Giuro che non è vero, che parto sempre da qualche documento. Ma nessuno mi crede. Non ho quindi grandi speranze che mi si presti fede su questo importante ritrovamento che ho fatto in una vecchia casa di Formeaso, o per l’esattezza in un rustico adiacente. Il proprietario aveva incaricato una Ditta di provvedere a rifondare l’edificio. Gli operai scavando nello scantinato, solo per caso riuscirono ad evitare un grave incidente sul lavoro. D’un tratto un pezzo del pavimento era crollato, mettendo alla luce l’esistenza di un altro piano interrato. Passato lo spavento per il rischio evitato di finire di sotto, gli operai hanno urgentemente l’impresario. Questi pensò che si dovesse andar sotto a vedere, non fosse altro perché si doveva pensare ad una variante per rimediare all’imprevisto. Si fece calare personalmente. “E’ solo una piccola grotta” disse da laggiù. “La si può riempire con una betoniera di calcestruzzo e il problema è subito risolto, senza neppure scomodare l’ingegnere direttore dei lavori”. Alla sera avvertì della cosa il proprietario, spiegandogli di come era stato efficiente nel risolvere l’imprevisto…”s’immagini se l’avesse saputo la Soprintendenza!..”Ho comunque controllato, prima di riempirla, se c’era qualcosa nella grotta, ma ho trovato solo questo recipiente arruginito che comunque le ho recuperato”.
Il mio amico s’era così trovato tra le mani una sorta di piccolo secchio chiuso con il coperchio. Avrebbe voluto inveire contro l’impresario che preso quella stupida decisione senza informarlo. Ma se la grotta era già stata riempita di calcestruzzo non c’era più nulla da fare. Non senza fatica riuscì ad aprire il secchio e si trovò tra le mani un rotolo di pergamena. Quando mi chiamò a vedere il reperto gli dissi che avrebbe dovuto consegnarlo alla Soprintendenza. Convenni con lui che sarebbe però scoppiato un casino. “Roba da finire in galera, per uno stupido di impresario!…”
Mi lasciò la pergamena per alcuni giorni e riuscii a trascriverla integralmente. Era scritta in latino e vi si parlava della conquista definitiva della Valle del But da parte dei Romani e della definitiva sottomissione dei Celti al potere di Roma. E’ vero che ho fatto l’insegnante di latino e quindi avrei anche potuto tradurla alla lettera, ma a me sono sempre piaciute le traduzioni libere nelle quali il traduttore reinterpreta il testo, mettendoci anche qualcosa di suo, e così ho reinterpretato liberamente anche la pergamena di Formeaso. Non ho competenze sufficienti per stabilire a che epoca risalisse, ma giurerei che è stata scritta all’epoca dei fatti che racconta, e quindi al secondo secolo dopo Cristo.
Racconto di come i Carni si sono infine sottomessi al potere di Roma. Così titolava la pergamena, e si capisce subito che è un racconto di parte, fatto da un carnico che non può non riconoscere la fine dell’autonomia del Carni, ma che la vuol far passare quasi come una decisione dei Carni, piuttosto che il risultato di una sconfitta militare. Da come sono andate le cose, almeno nel suo racconto, non credo abbia tutti i torti.
E’ vero che il trionfo per la vittoria sui Gallo-Carni l’aveva celebrato il console Emilio Scauro nel a.C. E’ vero che già da quei tempi la valle del But era stata occupata dai Romani che avevano costituito un loro avamposto tra Zuglio e Formeaso per presidiare la strada che portava al passo di Monte Croce. Ma è anche vero che la conquista si limitava al fondovalle e che sulle montagne della Carnia continuavano ad abitare indisturbati i Carni. Pare accertato anzi che tra i due popolo per un diversi secoli si fosse stabilita una sorta di pacifica convivenza.
Ci fu un periodo quindi nel quale la Carnia era divisa in due parti: quella romana nel fondovalle e la Carnia libera dei Celti sulle montagne. Cerano due sistemi di viabilità, una romana di fondovalle, ed una celtica in quota. E’ stato evidentemente il periodo più importante per la storia della Carnia, quello nel quale, come in un crogiuolo si sono fuse due civiltà, quella celtica e quella romana, per dare vita ad una civiltà ed una cultura nuova, assolutamente originale, derivata dall’incrocio e dalla fusione lenta tra le due culture precedenti così profondamente diverse.
Ma quando nella prima metà del Trecento, Costantino decise di creare un nuovo collante per l’impero facendo della religione cristiana una religione di stato, si pose il problema di unificare sotto lo stesso Dio tutti i popoli dei territori dell’Impero romano. Anche in Carnia si pose quindi il problema di conquistare-convertire i Carni che sulle montagne continuavano ad adorare Beleno.
Nel 370 l’imperatore Valentiniano che si era dedicato con energia alla sistemazione dei confini, volendo rafforzare il collegamento con il Norico, decise di intervenire da un lato migliorando la viabilità nella valle del But, dall’altro sottomettendo tutto il territorio. Della scelta di migliorare la viabilità resta traccia su una lapide a Monte Croce Carnico che ricorda gli interventi fatti nel 373 dal curatore Apinio Programmatio che aveva aperto nuovi tratti di strada. Della scelta di procedere alla conquista definitiva dà atto la nostra pergamena, che trova conferma nella storia ufficiale dell’Imperatore Valente (364-375) che morì per un colpo apoplettico il 18 novembre 375 a Brigezio (Szony in Ungheria) mentre era impegnato a difendere dai Quadi iconfini orientali dell’Impero..
Al mese di agosto dello stesso anno della sua morte risalgono le vicende narrate nella pergamena. Transitando per la valle con l’esercito per andare in Ungheria aveva infatti deciso di fermarsi qualche giorno a Julium Carnicum per fare una spedizione sulla montagne e ottenere la definitiva sottomissione dei Carni. Erano proprio i giorni in cui i Carni festeggiavano la festa di Lugnasad. Come si racconta anche nel libro” I Celti ritornano”, i Carni erano soliti fare festa tutti assieme ogni anno in una località diversa. Quell’anno la festa doveva tenersi nella valle del Ciaroj.
Valentiniano si accampò con le sue legioni a Julium Carnicum e pensò di approfittare del fatto che per la festa di mezza estate si radunavano tutti i capi proprio nella valle di fronte. Gli sarebbe stato facile catturarli per farli prigionieri e conquistare definitivamente la Carnia.
Nell’attesa diede anche ai suoi legionari la libertà di darsi alle feste in onore di Bacco.
A Julium Carnicum si festeggiava Bacco con il vino che le truppe romane avevano al seguito, nella valle del Cjaroi si festeggiava Beleno con una infinita varietà di idromele!
I Celti iniziarono i festeggiamenti già il venerdì, giornata dedicata alla religione ed alla cultura e alla sera mentre impazzavano le musiche celtiche in ogni villaggio della valle, dai luoghi prominenti della valle venivano lanciate le “cidules” infuocate accompagnate da versi in onore di Beleno.
Il sabato la festa dilagò e la valle fu tutta piena di suoni e di colori. Nella notte in tutti i paesi, ma anche nei casolari sparsi e fino in alto negli alpeggi, si accesero i falò incendiando le mede costruite con le fascine che avevano meravigliato a suo tempo anche Cesare.
La domenica secondo la tradizione scesero tutti ad Arta a purificarsi alla fonte d’acqua pudia. Fu allora che Valentiniano mosse l’esercito da Julium Carnicum ad Arta.
Praticamente non ci fu scontro. I legionari si mescolarono ai Celti, i capi dei Celti si incontrarono con l’imperatore e presero atto che non ci potevano essere due Carnie una del fondovalle ed una delle montagne, ed accettarono di sottomettersi alla dominazione romana.