lunedì 2 giugno 2008

Le campane di San Pietro.



Da brava ricercatrice, Lella, dopo il racconto sulle Agane del Monte Dauda, pensò di verificare subito se nei paesi sugli altri versanti della montagna, si riportasse la stessa leggenda. Decise quindi di recarsi a Fielis. Passando con il fuoristrada sotto alla Pieve di S.Pietro in Carnia sentì suonare le campane e così d’istinto decise di cambiare programma per fermarsi a vedere se c’era qualcuno alla Pieve. Il fatto che suonassero le campane non significava che ci fosse qualcuno, le campane ormai suonano con il motore elettrico comandato da un orologio programmato. Ma per questo non si poteva escludere che ci potesse essere anche il sacrestano-campanaro.
E’ c’era infatti. La porta del campanile era aperta e lo si sentiva scendere le scale con qualche imprecazione non proprio consona con il luogo sacro. Uscì infine alla luce del sole scuotendosi i capelli per liberarsi dalla polvere. Restò sorpreso di trovarla lì ad attenderla. Se l’avesse saputo non si sarebbe lasciato andare a tutte quelle giaculatorie…
“Nei giorni feriali, non c’è mai nessuno” disse, quasi a scusarsi, rispondendo così al suo saluto.
“Stavo andando a Fielis e mi sono fermata per caso”.
“Ma guardi che anche in paese non c’è quasi anima viva. Sono rimasti quattro vecchi..”
“E sono proprio i vecchi che mi interessano. Sto facendo una ricerca sulle leggende della Carnia, sto cercando persone anziane che se le ricordino”.
“Ah! Ma sono così tante le leggende in Carnia…”
“A me interessano in particolare quelle sulle Agane!”
L’affermazione di Lella sorprese il suo interlocutore che con evidente imbarazzo replicò: “Ma le Agane non sono una leggenda, sono storia. C’erano una volta anche qui sul colle di S.Pietro le Agane”
Il sacrestano di S.Pietro aveva le stesse convinzioni del vecchio di Dolaces. Usava le stesse parole per ribadire che le Agane sono un elemento reale e non fantastico della storia della Carnia.
Lella non sapeva come interpretare questa convinzione così radicata. Non capiva neppure perché i due anziani ci tenessero a sottolineare allo stesso modo la differenza tra la storia, riporto di avvenimenti realmente accaduti, e la leggenda, riporto di vicende inventate. Proprio a livello popolare pensava che doveva essere normale il riconoscere che storia e leggenda si incrociano e si mescolano. Ci sono leggende che nascono da fatti di storia, e ci sono fatti di storia che sono finiti in leggenda. Certe leggende sono nate dalla fantasia di qualche autore ma sono nate per spiegare la storia…
Riteneva comunque che avrebbe sviluppato questi concetti nelle premesse della sua ricerca, e che non era certo il caso di discuterne con il sacrestano. Per avere il suo racconto gli conveniva accettare senza discutere il suo punto di vista.
“Se ci sediamo un momento potrebbe raccontarmi cosa sa delle Agane che vivevano qui”.
“Volentieri!” disse lui, come se finalmente avesse trovato qualcuno che manifestava interesse ai suoi racconti. “Se vuole sedersi lei”, aggiunse, “io preferisco stare in piedi”.
Zoppicava vistosamente, e questo spiegava la sua difficoltà e le se imprecazioni nello scendere le ripide scale della torre campanaria. Ma, tutto agitato, continuava a muoversi avanti e indietro quasi dovesse tenere in esercizio la gamba malata. Piccolo e tarchiato, con una folta capigliatura di capelli bianchi, con quel suo incedere ondulato fece venir in testa a Lella l’idea che fosse uno gnomo. Sorrise tra sé, senza far commenti con il suo interlocutore, e si sedette su una panchina di pietra, appoggiata al campanile, mentre lui prendeva a raccontare continuando a girarle attorno.
Da generazioni la sua famiglia aveva l’onere e l’onore del compito di sacrestano della Chiesa matrice della Carnia. Da generazione in generazione trasferendosi l’incarico da padre a figlio si erano trasmessi anche il racconto delle Agane, che aggiungeva un elemento di mistero ma anche di poesia al loro compito di suonare le campane della pieve. Dovevano scendere dal paese ogni mattina alle sei per l’ave maria, a mezzogiorno per il segnale di mezza giornata e poi alle otto di sera di nuovo per l’Ave Maria del riposo della notte. Questo ogni giorno, per tutti i giorni dell’anno, poi c’erano le messe, lo scampanio delle feste…Era un compito chi richiedeva anche molta fatica. Per fortuna poi è arrivata l’elettricità, l’orologio programmato…Ora l’impegno è meno pesante, ma c’è sempre qualcosa che non funzione, e gli anni sono andati su…e pesano, ogni anno di più. E’ una fatica che si fa volentieri come servizio alla chiesa, ma anche…
“Guai se mi sentisse l’arciprete…” Anche per l’impegno assunto con le Agane…
E’ una storia lunga iniziata ancora nel seicento…A quei tempi tutti sapevano che sul colle di S.Pietro, nel cimitero che circonda la Chiesa, si raccoglievano ogni sera le Agane di tutta la valle del But. Tutti lo sapevano e lo ritenevano normale. Nel cimitero venivano sepolti i morti di tutta la valle ed alla sera le Agane si intrattenevano con loro. I vivi non riescono a parlare infatti con gli spiriti dell’ultramondo, ma i morti sì. E la conferma che ci fosse questo incontro l’avevano anche i vivi che potevano vedere ogni sera riempirsi il cimitero di lucciole come se ogni sera d’ogni giorno dell’anno fosse stata la notte di S.Giovanni. Ad eccezione della notte dei morti!…Quella notte le Agane non si facevano vedere e lasciavano che brillassero le fiammelle accese dai vivi a suffragio dei loro morti.
Tutti sapevano, compreso il prevosto, che sapeva ma faceva finta di non sapere. Se l’avesse saputo sarebbe stato costretto a prendere dei provvedimenti che l’avrebbero posto in cattiva luce nei confronti dei suoi parrocchiani che apprezzavano l’omaggio serale delle Agane ai loro morti. Finchè la notte di morti del 1615 fu costretto a vedere, e non potè far finta di non vedere…
Nessuno seppe spiegarsi l’incidente, per anni, per secoli la sera dei morti non s’erano fatte vedere, quella notte le fiammelle delle agane che si libravano nell’aria del cimitero si unirono alle fiammelle dei ceri degli uomini. Quando arrivò il prevosto con la processione dal paese, fu costretto a vedere ed a far rapporto al Tribunale dell’Inquisizione sul fenomeno di cui era stato testimone. Il notaio di Zuglio che era uomo dotto, riuscì anche a dare una spiegazione: ci sono tanti diversi calendari, per cui la Pasqua degli ortodossi non coincide con quella dei cattolici, forse il calendario delle Agane aveva una sfasatura che per quell’anno non l’aveva fatto coincidere con quello gregoriano. A Roma nello stesso anno il S.Uffizio discuteva con Galileo se il sole gira attorno alla terra o viceversa, e forse anche questo poteva aver generato confusione tra le Agane… Più che una spiegazione dotta era sembrata ai più una spiegazione bizzarra. Ma dotta o bizzarra che fosse, e qualsiasi fosse la spiegazione vera, l’incidente c’era stato. Il prevosto aveva messo in moto la macchina dell’inquisizione. Una macchina che si muoveva come un tritasassi. Gli abitanti di Fielis furono chiamati a Udine a testimoniare che avevano preso lucciole per lanterne, comunque a scanso di equivoci al prevosto fu chiesto di fare uno esorcismo contro la presunta presenza delle Agane, sul colle di S.Pietro…
Le Agane c’erano davvero e per l’esorcismo furono costretta ad abbandonare il luogo. Anche le Agane come il diavolo furono costrette a trattare con l’esorcista e chiesero di potersi rifugiare alla sera sul monte Dauda. Aggiunsero una richiesta strana: quelle di essere accompagnate dal suono d’una campana. “Ogni sera il sacrestano suona alle otto l’Ave Maria, se ritenete che quel suono vi possa accompagnare…basta che non si sappia in giro del compromesso…L’unico ad essere messo a conoscenza del segreto fu per necessità il sacrestano. Con obbligo di mantenere il segreto, pena la morte eterna, e di comunicarlo solo ai suoi successori…
Anche adesso che le campane suonano senza l’intervento dell’uomo, ogni sera alle otto di sera la cella campanaria si riempie di lucciole, e si illumina. Ai primi rintocchi con il suono che sale verso il monte portato dalla brezza della sera, al suono s’accompagna una scia di luce che sale e si perde su nel bosco sopra Fielis, per arrivare fino alla cima della montagna.
“Ecco ti ho svelato il segreto!” concluse il sacrestano agitandosi sempre più. “Io non ho figli a cui tramandarlo. Forse dopo di me non ci saranno neppure più sacrestani alla Pieve. Dal momento che mi hai detto che ti stai interessando alle Agane mi sei parsa la persona più adatta cui confidarlo”

L'uomo che parlava alle Agane.


Lella faceva la ricercatrice all’Università di Udine, ad antropologia, o in qualche altro simile corso di laurea. Era sta incaricata di una ricerca sulle Agane in Carnia. Doveva indagare sul perché nella Carnia, più che nel resto della montagna friulana, fosse venuto meno nella tradizione popolare, il ricordo delle Agane. Come si sa, questi spiriti dell’acqua sono noti in tutta la montagna con il nome di Agane, Aguane, Anguane, Aganis, Gane, Vivane ed altro, e sono descritti in modi molto diversi, alle volte come bellissime fate altre come bruttissime streghe dalle mammelle a penzoloni. Nella Valcellina la loro memoria è rimasta fino a dare il nome all’Ecomuseo della valle. Nella Valcanale, ed in particolare a Chiusaforte, si ricordano associate a varie località. Tra i ladini delle Dolomiti, sono molto diffuse le leggende sulle anguane e proprio con una Anguana che adotta una bambina, prende inizio la saga dei Fanes, la saga sull’origine dei ladini. A livello nazionale l’Anguana ha dato il nome al Museo dell’uomo e della montagna istituito dall’Istituto Nazionale di Ricerca sulla montagna.
Questi dati Lella se l’era scritti nelle premesse. Aveva anche definito che il passaggio da fate a streghe fosse la conseguenza degli interventi dell’Inquisizione che aveva cercato di demonizzare le tradizioni legate alla visione panteistica d’una natura viva, popolata da spiriti che sapevano entrare in relazione con gli uomini. Ma il suo compito vero era quello di fare una ricerca sul campo, verificando se in qualche paese della Carnia, si parlava ancora delle agane. Aveva visitato Vinaio, con l’idea che Gans fosse una ulteriore variazione del nome. Ma come s’è già avuto modo di vedere a proposito dei Gans di Trava, questi esseri non potevano essere confusi con ninfe d’acqua.
Comunque la visita a Vinaio non era stata vana, da una vecchia del paese, aveva avuto l’informazione che nella borgata di Dolàces c’era un vecchio pastore, Meni di Flèch che raccontava storie di Agane.
Nella speranza di aver trovato finalmente una pista da seguire, il giorno dopo salì con il fuoristrada fino in Malga Corce e poi raggiunse a piedi Dolaces. Oggi la borgata è disabitata, ma già al momento della visita di Lella tutti gli abitanti avevano lasciato le loro case per trasferirsi più a valle, ad eccezione di uno, appunto Meni di Flech che continuava a vivere come un eremita, deciso a non abbandonare il suo paese “se non nella cassa da morto”.
Si era ai primi di maggio, e la primavera era finalmente arrivata anche nella borgata a 1300 m. sul mare, alle falde del monte Dauda, esposta a nord, abitata quando per sopravvivere non si poteva guardare troppo per il sottile, ed uno spiazzo coltivabile, anche se troppo in alto e con cattiva esposizione, poteva andar bene per ricavare l’indispensabile alla vita di una famiglia.
Meni di Flech stava crogiolandosi al primo tiepido sole, seduto sulla panca di legno a fianco dell’ingresso della sua casa. Aveva gli occhi aperti eppure Lella aveva l’impressione che non l’avesse vista, pur essendo già arrivata a pochi metri da lui. L’avevano avvertita a Vinaio che si trattava di una persona originale. E si poteva ben dire originale il vecchio che le stava davanti, con quel cranio lucido come una palla di biliardo al quale faceva da contrappunto una barba bianca, folta e non curata. In mezzo un viso bruciato dal sole, segnato da rughe profonde, scavate dal tempo, dal quale emergevano due occhi azzurri fissi a guardare nel vuoto. Ma quel non essere vista, quegli occhi che guardavano e non vedevano, come se anche gli occhi fossero assorti a guardare nel pensiero, era qualcosa di troppo originale...
Pensò che fosse pazzo, e per un momento esitò… Per una giovane donna, non era certo consigliabile l’intrattenersi sola con un pazzo, tra le case deserte d’un paese abbandonato in mezzo alla montagna. Ma la curiosità della donna e della ricercatrice vinse sui pur legittimi timori.
“Buongiorno!” lo salutò fermandosi a due passi da lui.
Al saluto parve svegliarsi, e la guardò stupito come chi si sveglia dopo un brutto sogno a fa fatica a riconoscersi nella realtà che lo circonda. Tra quelle case ormai pericolanti non era certo abituato ad aprire gli occhi su una bella ragazza, e infatti rispose al saluto con un: “che ci fa lei qui?” che sembrava più a un se ne vada, piuttosto che ad un s’accomodi.
“Non la voglio importunare!” volle precisare Lella per scusarsi in anticipo, ancora meno sicura d’aver fatto bene a svegliarlo. “Se vuole me ne vado subito!”
“Ma allora perché è venuta?”
“Per motivi di studio, devo incontrare persone che conoscono delle leggende!”
Rise divertito. E Lella si tranquillizzò, forse la persona non era poi così poco raccomandabile come la faccia la faceva apparire. A volte, anche tra gli uomini, non c’è corrispondenza tra contenitore e contenuto...
“Ai miei tempi si studiavano le tabelline, non le leggende”, disse ridendo.
“Sa, è un po’ tutto cambiato!” commentò lei cercando di ingraziarselo.
“A chi lo dice! Ma che leggende le interessano?”
“Quelle sulle Agane.”
Si rabbuiò come se quella parola fosse stata una provocazione nei suoi confronti: “Le Agane, non sono una leggenda”, disse con forza. “Si sono ritirate ad abitare sulla cima del monte Dauda” e indicò con la mano la montagna in alto, alle cui pendici si trovava la borgata
Per una che cercava si sapere qualcosa sulle Agane, trovarsi con uno che era convinto esistessero ancora, era una vera fortuna, Lella si vedeva già con tra le mani una ricerca degna di pubblicazione.
“Come fa a sapere che abitano ancora sul Dauda”
“Lo testimoniano i ruderi della malga di Chiàs di sopra”
“Ma cosa hanno a che fare i ruderi di una malga con le Agane?”
La fece sedere sulla panca vicino a se, come se fosse una sua nipote, e prese a raccontarle la breve storia della malga.
Devi sapere che il Daùda è una montagna sacra!
Alle sue pendici, dalla parte di Zuglio, c’è la malga che prende il nome dal monte, da questa c’è la malga Chiàs. Ma sono due malghe di mezza quota, la cima della montagna, non è mai stata utilizzata a pascolo perché è la casa delle Agane. Ai miei tempi tutti i pastori lo sapevano e nessuno avrebbe spinto le sue bestie fin lassù. Anche perché, a conferma che si trattasse d’una montagna sacra, veniva proprio dalle bestie che si rifiutavano di salire sui pascoli della cima.
Lo sapeva anche suo nonno, continuò a raccontare Meni, ma era uno uomo senza Dio che per qualche soldo in più, avrebbe sfidato il diavolo all’inferno. Pensò che su quei pascoli avrebbe potuto allevare un bel numero di capi di bestiame, e decise di costruire una malga in quota, per poter utilizzare i pascoli fin ad allora inutilizzati. Venne così costruita la malga di Chiàs di sopra.
In un primo momento ebbe qualche difficoltà a trovare dei pastori disposti a gestire la malga, ma alla fine trovò qualcuno, come lui senza timor di Dio, o costretto dal bisogno a non curarsi della voce popolare che considerava la montagna riservata alle Agane. Ma nessuno di questi pastori resistette in malga più di qualche giorno. Come le stelle in cielo si accendono soltanto al far della notte, così sulla montagna al calare delle ombre della notte s’accendevano le voci delle Agane. “E’ come se la montagna fosse piena di noci, e nella notte un gran numero di persone, si mettesse a mescolarle” raccontavano i pastori abbandonando la malga. “C’è un rumore assordante di noci mescolate, che impedisce di dormire”. I più coraggiosi avevano anche cercato di capire da dove venisse quel chiasso di noci rimestate. Ma se andavi a destra lo sentivi venire da sinistra, e viceversa. Era come se tutta la montagna fosse piena di grilli, che invece del solito “cri, cri”, emettevano un assordante “cra, cra”. “Son le Agane!” si convincevano alla fine anche i pastori meno portati a credere alle leggende, e abbandonavano la malga.
Il nonno era evidentemente disperato. Aveva impegnato tutti i suoi soldi nella costruzione della malga. Ed ora non poteva avere nessun ritorno economico dall’investimento, perché non si trovavano pastori per gestirla…Disperato, pensò di utilizzare come pastore Bepi Scivilott, quello che si direbbe lo scemo del villaggio.
Bepi era un ragazzo al quale il cervello gli era mancato sin dalla nascita, ma poi ancora bambino era rimasto senza genitori, e questo fatto non aveva certo migliorato il suo sviluppo…
Dormiva nella casa che gli avevano lasciato i genitori, ma viveva di fatto nella borgata, facendosi ospitare a caso, ora da una famiglia ora da un’altra. “Qualche paese alleva il maiale di S.Antonio, noi allevavamo Bepi Scivilott”. Il soprannome che in italiano potrebbe essere tradotto con “zufolo” gli era stato dato perché sapeva trarre delle melodie eccezionali dagli zufoli che si costruiva da solo ricavandoli dai rami di giàtul (salica). Tutti in paese lo aiutavano, nessuno avrebbe pensato di poter approfittare del suo ritardo mentale. Il nonno si! Era un uomo senza scrupoli. Lo portò in malga e lo lasciò a dormire da solo. Si aspettava di vederselo rientrare spaventato in paese già nella notte, e invece all’alba del giorno dopo lo trovò felice, e per come riusciva a farsi capire, deciso a continuare a vivere da solo in malga. Meglio di così! Il nonno non si preoccupò di capire. Vide la possibilità del guadagno e gli affidò un gregge di capre. E le bestie che non avevano mai voluto salire ai pascoli del Dauda, con lui presero a salire fin sulla vetta della montagna. Anzi nelle tiepide sere di agosto Scivilott si fermava a dormire con le sue bestie sotto alcuni faggi cresciuti proprio sulla cima.
E quel rumore di noci rimescolate? Mah!. Scivilott diceva che era musica. Sia di giorno che di notte lui intonava melodie con il suo zufolo, e la montagna rispondeva trasformandosi in una fantastica orchestra. A volte i pastori di Malga Meledis lo sentivano anche cantare. Il suo canto che sembrava stonato e sgradevole agli altri uomini, evidentemente piaceva alle Agane. Era come se le sue corde vocali suonassero una musica su un registro diverso da quello degli uomini, che però era il registro delle Agane. Era ritardato nel parlare con gli altri esseri umani, ma riusciva a entrare in perfetta sintonia con le Agane .
Ma quando morì Scivilott, e purtroppo per lui e per il nonno, morì giovane, non si trovò più nessuno che sapesse condurre le bestie al pascolo sulla montagna delle Agane. Nessuno che sapesse comunicare con loro, facendo loro accettare il brucare dell’erba delle bestie. Le capre non salirono più sulla montagna. La malga Chias di sopra non utilizzata si ridusse presto a un rudere.
“Se vuoi ti accompagno a vedere i resti!” concluse il vecchio. “Così avrai la conferma dell’esistenza delle Agane”
“Grazie, sarà per un'altra volta!” gli rispose Lella e non volle offenderlo spiegandogli che non aveva senso la relazione diretta che lui faceva tra la malga ridotta ad un rudere, e la esistenza delle Agane sul monte Dauda. Se anche fosse vero che non vi pascolano le capre, potrebbe essere soltanto perché, per qualche caratteristica del terreno, ritengono immangiabile quell’erba.
La guardò con lo sguardo penetrante che gli aveva osservato arrivando. Come allora le era parso che guardasse dentro ai suoi pensieri, ora ebbe la sensazione che leggesse dentro ai pensieri di lei. Scosse la barba incolta in segno di disapprovazione e le disse:
“Se passassi di qui qualche notte sentiresti suonare il violino. Non sono gli spiriti. Son io che suono. Alle volte…Lo suonavo il violino, da giovane, nelle feste da ballo a Vinaio o a Lauco nella Casa del popolo. Ancora qualche volta mi esercito… Lo suono così da dilettante autodidatta. Dalle suo corde si riesce a far uscire un suono d’una delicatezza infinita, dalle nostre corde vocali sappiamo solo far uscire suoni e parole sgradevoli di inimicizia e di odio. Se le sapessimo suonare come si suona il violino…E’ evidente che suonate così, le nostre corde vocali, non ci possono mettere in relazione con l’ultramondo. A Scivilott che sapeva suonare male le sue corde vocali con la tecnica degli uomini, forse madre natura aveva dato il dono di suonarle con la tecnica delle fate, la tecnica del violino. Sapeva pur suonare lo zufolo meglio di qualsiasi altro uomo!..
Per questo poteva parlare con le Agane. E se lui ci parlava, è vero che esistono!!!…”