sabato 19 gennaio 2008

Il poeta della gerla.

(prima bozza)
Continuando a rovistare tra le carte di Floriano Piute dalle quali ho tratto il racconto sull’Agana di Tarlessa, ho trovato un carteggio che dimostra come anche il nostro Floriano conoscesse il racconto del Gan di Trava. Sostiene però che sia falso. Perché, secondo lui ai tempi a cui risale la vicenda dell’Agana, non erano ancora state inventate le gerla. Non so che dire… Ho provato a consultare i maggiori esperti di storia friulana, ma nessuno mi ha saputo dire a quando risale la scoperta della gerla. Invece il mio antenato Piute, non ha dubbi: proprio ai tempi dell’Agana di Tarlessa, dice lui, proprio nel momento storico già ricordato nel quale il paese di Trava si era diviso in due fazioni. Quelli di Trava di sopra si mantenevano fedeli alla religione celtica dei padri, quelli di Trava di sotto si erano invece lasciati convincere dai predicatori del cristianesimo. Quelli di sopra continuavano a onorare Beleno nel tempio ove sorge la Chiesa della Madonna, quelli di sotto avevano cominciato ad andare a Messa nella chiesa che si erano costruiti al centro del paese. Avvenne in quei tempi che fu mandato a Trava un prete che odiava le donne. Era di una misoginia patologica. Quando parlava delle donne sembrava il diavolo che parla dell’acqua santa. E’ ora di finirla, diceva di trattarle come fossero delle fate. Sono streghe, messe al mondo dal diavolo per farci finire all'inferno!. Un vero cristiano le deve sottomettere, come dice S.Paolo. Devono essere loro, non voi uomini, a far fatica portando i pesi in spalla, in giro per le montagne.
Quest’ultimo ragionamento fece presa immediatamente, e forse fu quello che favorì, le conversioni e lo sviluppo del cristianesimo sull’Altopiano di Lauco.
Fino ad allora…ed è da qui che secondo Piute si ricava la falsità del racconto del Gan, erano gli uomini a fare i portatori. I Celti infatti, sostiene Floriano, avevano un grandissimo rispetto per le donne. Come vedevano le fate in natura, così consideravano fate le loro mogli. Le sorgenti erano per loro popolate dalle fate dell’acqua, le Agane. Da una fatata vulva di roccia sgorga l’acqua, come dal ventre fatato d’una donna sgorga la vita, cantavano i loro poeti. Del resto le loro donne erano bionde e molto belle, ma anche piccole e mingherline, non avrebbero potuto portare grandi pesi. Così era i normale sull’altopiano di Lauco incontrare una coppia formata da un maschio con le spalle cariche di roba, accompagnato da una donna che gli faceva compagnia senza portare nulla. Come oggi potrebbe essere normale incontrare una coppia formata da una donna curva sotto il peso di una grande gerla, accompagnata dal marito che non porta nulla. Che tempi!…
I maschi dei Celti tuttavia non conoscevano ancora la gerla, usavano come strumento di trasporto una sorta di rudimentale spalliera che ricorda la “crame” dei cramars, o la “refe” che si usa ancora in qualche paese. Una imbracatura rudimentale insomma alla quale si potevano legare le cose da trasportare.
Per tornare comunque al nostro racconto, a sentire il prete urlare dal pulpito che si sarebbe finiti all’inferno se non si trattavano le donne come animali da soma, tutti gli uomini furono più che felici di passare alle rispettive mogli il compito di portare la loro “crame”, e come ho già detto le conversioni al cristianesimo crebbero in forma esponenziale.
A Trava viveva a quei tempi un tal Giacomo Sclisizzo, (nome e cognome molto comuni ancora sull’altopiano) che obbedì al prete per non finire all’inferno, ma che allo stesso tempo sentiva di aver perso tutta la poesia della donne, al vederle curve sotto il peso di quel brutto trabiccolo che era la “crame”.. Va bene la religione! Diceva, ma anche l’occhio vuole la sua parte, l’estetica deve avere il suo peso... E fu così che inventò per le donne portatrici uno strumento elegante come la gerla.
Giacomo che così si prese il soprannome di “Jacum dai gèis”, tagliò in autunno “in buono di luna” alcune piante di nocciolo, le portò nella stalla perché al calore delle bestie si ammorbidissero. Il primo giorno di neve, si mise all’opera. Dopo aver raschiato la corteccia, prende a incidere con un coltello la pianta di nocciolo. Piegandola poi, e facendo forza contro il ginocchio, questa si sfalda. Si stacca dal resto la parte di pianta cresciuta nell’ultimo anno, formando una striscia di legno molto flessibile. In friulano una "sclese" o una "sclèndare". Da qui pare sia derivato il cognome di Sclisizzo. il "poeta che faceva le sclese". Dopo aver impostato la gerla con la base di legno e lo scheletro fatto con le bacchette di vimini, si intrecciano le strisce di nocciolo e si forma l’elegante contenitore che ha preso il nome di gerla. Se ne possono fare di ogni tipo, per ogni circostanza: per portare la dote delle spose, o per portare il letame dalle stalle nei prati e nei campi, più grandi per portare il fogliame, o più piccole e resistenti per portare i sassi per costruire la casa.
Fu così che iniziò la storia della gerla, e delle donne con la gerla. Per saperne di più vai a http://www.donneincarnia.it/varie/gerla-testi.htm
Per quanto mi riguarda, non saprei dire se sia andata veramente così, anche perché questa versione, come ho già detto contrasta con quella del Gan di Trava. A meno che non ci siano stata una evoluzione anche ai tempi dei Celti. Può essere che tra il racconto dell’Agana e quella dei Gans siano passati mille anni. E in mille anni ne possono succedere delle cose… Potrebbe essere che all’inizio anche i Celti usassero le donne come portatrici, e che nei secoli queste si siano poi emancipate ed abbiano sottomesso gli uomini a fare da portatori… C’è voluto il cristianesimo a rimettere le cose a posto portando le donne ad essere nuovamente sottomesse… La teoria potrebbe trovare una conferma nel fatto che anche ai tempi nostri al diminuire del peso del cristianesimo, fa riscontro l’aumento del ruolo e del peso delle donne nella società! ...
D’altra parte che ci possano essere stati dei cambiamenti sul ruolo della donna nei secoli è fuori discussione. Basti vedere i cambiamenti che genera una donna nel breve spazio della vita di un uomo. Scrive infatti il poeta che quando sono giovani sono come farfalle, e i giovani le rincorrono per portarsele a casa. Ma quando si sono accasate, come per magia si trasformano in croci, sempre più pesanti, al passare degli anni…e la farfalla che hai faticato ad inseguire, è una croce da cui non ti puoi staccare “fin che morte non vi divida”. Così almeno continua ora a tuonare dal pulpito il prete di Lauco, quando trova il tempo per dir Messa anche a Trava…
Saranno gli storici a ricostruire come sono andate veramente le cose! Comunque che ci sia qualcosa di vero nel racconto di Piute, è dimostrato dal fatto che a Trava è rimasta la passione per costruire le gerle. Ogni venerdì si riunisce nelle scuole la congregazione dei poeti delle gerle per insegnare ai giovani a ripetere i gesti dai quali nasce la gerla. I poeti spiegano come il legno sia qualcosa che vive, che bisogna saperlo prendere, saperlo capire, per farlo lavorare secondo le proprie esigenze. E ti pare di sentire ancora un Druido dei Celti che parla di come tutto in natura ha una vita, una voce, di come si possa sentire il respiro del bosco, ma anche il differente respiro di ogni pianta, dell'erba, dei fiori...

lunedì 14 gennaio 2008

L'Agana (fata) di Tarlessa a Trava di Lauco.


Leggendo il mio racconto sul Gan di Trava, qualcuno ha pensato che me lo sia inventato. Non è affatto vero! L’ho trovato nelle carte che mi sono ritrovato come uno degli ultimi eredi dei tanti Piut e Piute che hanno popolato la Carnia. I Piutti sono orami una progenie in estinzione, ma non è sempre stato così. M’è capitato proprio tra le carte di uno di questi, quondam Floriano Piute di Trava morto nel 1514, di trovare la storia del Gan ed anche quella che vi vado a riportare sull’agane di Tarlessa. Se poi questo Piute le storie le abbia tratte dalla sua fantasia o da qualche documento più antico non saprei. Ma che ci importa? L’umanità ha pensato per millenni che il sole girasse attorno alla terra per poi scoprire che era vero il contrario. Ma con questo che cosa è cambiato?
Tornando ai racconti di Floriano Piute, quello dell’Agane è ancora più intrigante. Si riferisce al periodo della diffusione in Carnia del cristianesimo, alla metà del secondo secolo dopo Cristo. Pure in Carnia erano arrivati i missionari della nuova religione. Come è avvenuto in tutto il mondo, anche qui qualcuno si è convertito subito, altri hanno invece resistito fedeli alla religione della tradizione, che in Carnia era quella dei Celti.
A Trava i Celti Leuci che popolavano l’altopiano di Lauco, avevano un loro tempio ove oggi sorge la Chiesa della Madonna di Trava. Non era proprio un tempio. C’erano dei grandi blocchi di pietra in un bosco fitto di querce, e questo per i Leuci era il luogo della religione. Da una delle pietre sgorgava un’acqua freschissima, e la sorgente era abitata da Tarlessa una delle Agane dell’Altopiano . I primi cristiani costruirono invece una piccola chiesa molto modesta, poco più di una ancona votiva, ove oggi sorge la chiesa di san Leonardo. I cristiani avrebbero voluto convincere tutti i loro paesani ad abbandonare i riti pagani. Ma la gran parte dei Leuci di Trava resisteva nella fede degli antenati, anche perché il loro tempio era famoso in tutta la valle del Tagliamento, perché da tutta la valle, sin dalla notte dei tempi, si portavano a seppellire i bimbi nati morti.
Si sa che per la religione di Celti il mondo degli invisibili è ancora più importante del mondo visibile. L’uomo è destinato a vivere l’eternità nel mondo degli invisibili dopo un periodo più o meno lungo trascorso nel mondo dei visibili. Per questo, come ricorda anche Giulio Cesare, i Celti facevano festa per la morte e piangevano per le nascite. I romani restarono sorpresi per questa usanza, ma in effetti se la morte è l’entrata nel mondo dell’eterna felicità non si vede perché si dovrebbe piangere. Mentre invece quando un nuove essere umano entra a tormentarsi a questo mondo, piuttosto che rallegrarsi, ha più senso compatirlo e piangere per lui.
Comunque così la pensavano e così credevano i Celti in Carnia prima del cristianesimo. Ritenevano anche che per gli uomini il periodo trascorso nel mondo dei mortali fosse necessario per costruire il sistema dei ricordi, che poi teneva legate le persone al loro territorio, anche nel mondo degli invisibili. Da qui un culto dei morti veramente sentito, perché sentita la loro presenza viva se pure invisibile
Ma ad un certo punto, s’erano posti anche loro il problema dei bimbi nati morti. Non avendo visto niente, non avendo nessun ricordo, come potevano restare legati al territorio della Carnia?
Dopo infinite discussioni telogociche, avevano infine trovato la soluzione di portarli al Druido di Trava. Questi li consegnava all’Agana Tarlessa che li metteva in una gerla e con loro saliva la notte in cima al monte Arvenis. La fata aveva il potere di richiamarli in vita. Appoggiava la gerla sulla cima, ove oggi c’è la croce, alitava poi sui bambini recitando delle formule magiche. Il suo alito dava loro vita e miracolosamente trovavano anche la forza di aggrapparsi all’orlo della gerla e guardare. Lei girava la gerla come se fosse stata una giostra per bambini, e loro guardavano, e nei loro occhi si imprimevano le immagini della Carnia, che avrebbero conservato per l’eternità nel mondo degli invisibili.
Ai tempi della nostra storia nel 150 d.C era papa a Roma Igino che nell’organizzare i riti della nuova religione, aveva posto mano a quello del battesimo. Stabilì che ci dovesse essere un padrino ed una madrina a recitare la professione di fede, ma stabilì anche che i bambini senza battesimo non avrebbero avuto diritto al Paradiso. Inventò per loro un Limbo che è stato in funzione per tutti questi secoli, e che è pare sia stato chiuso da poco dall’ultimo Papa.
Ai primi cristiani di Trava, questa idea dei bambini nati morti, che non potevano entrare in Paradiso non andava giù! Che colpa avevano loro? E i genitori? Non bastava la disgrazia di vedere morto il bimbo portato in grembo per nove mesi, dovevano anche tormentarsi sapendolo al Limbo!
Se i bimbi dei genitori di religione celtica potevano rivivere qualche momento per vedere la Carnia, perché non concedere ai figli dei cristiani, la stessa possibilità? Avrebbero avuto così il tempo di riceve il battesimo, per poter volare a fare gli angeli in Paradiso!
Quando con gli anni, i cristiani furono in maggioranza a Trava, decisero di occupare il luogo del tempio del Dio Beleno. Il Druido che oppose resistenza, fu ucciso nel nome di Cristo che aveva predicato di amare anche i nemici, e sepolto in Cerantonis. Dal fatto si deduce che questo era probabilmente il suo nome, che non viene riportato nella carte di Piute. Se fosse vero sarebbe il caso di dedicare sul luogo un monumento al nome di questo martire.
L’Agana per il dispiacere di non poter girare la giostra con i bambini in vetta all’Arvenis, si rifugiò sui pianori che ora prendono nome da lei, e si lasciò morire. Molti raccontano di sentirla piangere ancora tra gli stavoli, soprattutto nelle notti di luna piena. La fonte dove ella viveva non c’è più. A seguito di uno dei tanti terremoti anche questa si è spostata ed è diventata la sorgente del Tof, che peraltro conserva ancora i poteri magici lasciati dalla fata, sembra infatti che con la sua acqua si possano curare molte malattie..
La madonna nell’immaginario collettivo degli abitanti di Trava, ha preso il posto dell’Agana, e la Chiesa della Madonna di Trava è ancora famosa ai giorni nostri come lo era nel 1686 quando fra Antonio Dall’Occhio riportava che a Trava “vi è una piccola Chiesa dedicata alla Madonna del Carmine, comunemente detta la Madonna di Trava, alla quale vengono continuamente portati da’ villaggio cadaveri di bambini usciti morti da materni ventri…il notaro della Villa, detto Giovanni Leschiutta, fa un attestato che il bambino morto ha dato segni di vita e che è stato battezzato, lo consegna a colui che ha portato il bambino morto, acciò lo porti ai genitori, i quali molto si rallegrano di tale attestato e fermamente credono quanto in esso si attesta, che il morto bambino sia veramente risorto, habbi ricevuto il Battesimo, e andata la di lui anima a godere l’eterna gloria”.

Il Gan di Trava di Lauco.


A quei tempi, ai tempi in cui la Carnia era la terra dei Carni, le montagne erano popolate anche da tanti folletti. Sono favole! qualcuno dirà. E invece è una verità. I Celti infatti credevano che convivessereo assieme due mondi: quello del visibile e quello dell’invisibile. L’invisibile è il mondo nel quale in una altra dimensione vivono quelli che hanno abbandonato il loro corpo in qualche cimitero della montagna, ma anche tanti folletti e bellissime Agane.
Sull’alternarsi di pianori e piccole cime che dalla vetta dell’Arvenis, digradano verso il Tagliamento si era insediata la tribù dei Leuci, da cui prende nome oggi il Comune di Lauco, che ricomprende tutti i villaggi del suggestivo altopiano, che strapiomba su Villa Santina. Avevano occupato tutti i terreni ove era possibile far pascolare le greggi, ma il villaggio di riferimento era più in alto rispetto agli attuali paesi, era il villaggio di Chiàs nella conca ove oggi ci sono le poche case di Tristchiamp. Sull’altra sponda del Tagliamento sui pianori di Pani e Valdie che digradano dal Col Gentile si era insediata la tribù dei Ravei, che aveva il suo punto di riferimento nel villaggio di Sorantri. Le due tribù erano in collegamento con una passerella che attraversava il Tagliamento all’altezza della borgata di Chiassis, che incrociava sull’altra riva la strada che ancor oggi congiunge Raveo con Muina. Su questo collegamento da Chiàssis a Chiàs, i Leuci avevano istituito una sorta di servizio di trasporto permanente. C’erano infatti delle donne che con le gerle ogni giorno trasferivano sugli altipiani i prodotti che le donne di Sorantri portavano giù fino al Tagliamento. Il sistema era organizzato con un gruppo di donne che trasportava i prodotti da Chiassis all’attuale Trava, un altro gruppo da qui fino a Tarlessa e poi da qui fino a alla valle di Chiàs.
Non ci crederete! Ma e proprio storia! Anche se ancora nessun libro l’ha raccolta. Ad aiutarle c’erano i Gans. Sono i folletti che aiutano gli uomini di montagna quando devono fare un grande sforzo. Come racconta anche Giovanni Pielli nel suo libro sugli “Sbilfs” erano di corporatura rozza e massiccia. Pettorali, bicipiti e polpacci molto sviluppati dal continuo esercizio fisico, gli conferivano una forza erculea. Di carattere pacifico e servizievole erano grandi amici soprattutto dei boscaioli, i menàus. Li aiutavano a districare i pericolosi grovigli di legname che si formavano nelle strettoie durante le fluitazioni (stue) oppure nel liberare i tronchi che si incastravano negli inghippi lungo le risene (lisse).dei montanari.
Non essendoci menàus tra i Leuci, i Gans, servizievoli come erano, s’erano impegnati ad aiutare le donne portatrici. Le aiutavano nello sforzo di caricare la gerla sulle spalle, o nei tratti di maggiore pendenza, si mettevano dietro a loro aiutandole a sostenere il peso. Anche loro, come le donne si erano divisi in squadre, ed ogni giorno al far dell’alba lasciavano la piccola grotta chiamata appunto çiase dai Gans e raggiungevano il gruppo di donne alle quali dovevano prestare aiuto.
Nel gruppo che dagli altopiani scendeva al Tagliamento, ai tempi della nostra storia, c’era una bellissima ragazza, dai lunghi capelli biondi raccolti dietro la nuca in due lunghe trecce, con due occhi d’un azzurro così intenso che pareva specchiassero l’azzurro del cielo del monte Arvenis nelle giornate di sole di settembre. Non era grande, ma era tutta così perfettamente proporzionata che sembrava una bambola, sfuggita dalle mani di un grande artista, e per chissà quale incantesimo diventata donna. Era quasi impossibile non innamorarsi di lei ed infatti per un suo sorriso avrebbero dato un occhio tutti i ragazzi dell’altopiano. Non facevano che parlare di lei anche i Gans, quando alla sera si ritiravano nella loro grotta. Innamorarsi è normale, ma Avaglio che era il più romantico dei Gans, s’era preso una cotta tale che gli pareva di non riuscire a vivere senza il sorriso di quella ragazza. Aveva preso a seguirla in ogni momento, la aiutava a portare la gerla continuamente e non solo sulle salite più ripide. Sulla salita che si inerpica fino all’attuale piazza del paese ce la metteva tutta, gli pareva di riuscire a sollevare con la gerla anche la ragazza, poi quando questa appoggiava la gerla sull’apposito trespolo, che aveva accanto all’uscio di casa, le si metteva davanti implorando un suo sorriso… Ma lei niente!
Abitava la bella ragazza in una casupola posta ove ora c’è l’osteria del paese, proprio sulla strada che doveva percorrere più volte al giorno nel suo lavoro di portatrice. Aveva così il vantaggio di potersi fermare un momento a riposare, a bere un sorso d’acqua. Avaglio la seguiva come un ombra. Ogni tanto con uno scatto le si parava davanti e le sorrideva con la speranza di essere ricambiato. Ma lei niente! Ogni momento con lei da quando la prima luce, da dietro al monte Damarie, rompeva il velo nero della notte, fino a quando si spegneva l’ultima lama di luce dietro alle Dolomiti di Forni… In cambio di un sorriso, avrebbe potuto chiederle qualsiasi cosa. Ma lei niente! Non un sorriso ma neppure una parola gli rivolgeva.
Niente! Aveva una bocca che s’apriva come un fiore di genzianella al sorgere del sole. Per un suo bacio soltanto, tutti i ragazzi dell’altopiano avrebbero dato l’anima, e lei non l’apriva neppure quel boccio di rosa, per dire almeno una volta “grazie!” al povero Avaglio che si faceva in quattro per lei.
“Tu às doi voi ca son dos stelis, e la bociute ca è un bombon” le mormorò ispirato un giorno il Gan che come tutti i romantici era anche un poeta, inventandosi così una frase che sarebbe rimasta nella storia. Ma niente!
“Vuoi che ti porti le stelle alpine dal monte Arvenis? Vuoi che scenda nella forre del Vinadia? Vuoi che mi butti nel fuoco? Per te andrei anche a rubare…” La parola gli fece venire l’idea del gesto estremo, di fronte al quale anche Trava avrebbe dovuto cedere.
“Domani, le disse, ti porterò il tesoro dei Gans!”
Nella loro grotta i Gans custodivano un paiolo di bronzo pieno di monete d’oro. Era lì dalla notte dei tempi. Nessuno sapeva come vi fosse arrivato. Qualcuno diceva che veniva dall’India, qualcun altro dall’Egitto. Forse era stato portato dai Celti nella prima immigrazione dall’oriente ed in qualche modo era finito nella grotta la cjase dai Gans. Per i folletti quelle monete non avevano alcun valore in sè. Ma quel paiolo pieno d’oro era diventato il simbolo della loro gente, un sorta di divinità. Portarlo fuori dalla grotta, sarebbe stato un sacrilegio. Il massimo dei sacrilegi.
Ecco luio era disposto a fare il più terribile dei sacrilegi pur di conquistare la bella Trava!. Le spiegò ciò che aveva intenzione di fare per lei, le spiegò quanto fosse madornale l’azione che si accingeva a fare, pur di ottenere le sue grazie. Ma lei niente!
“Forse non le credeva! Pensava che fosse un fanfarone!”
No! Avaglio era di parola!
Mentre gli altri Gans stanchi dormivano, prese il recipiente con le monete e uscì nella notte.
Guardando al cielo di stelle, pensò al sacrilegio che stava compiendo. Ma non provò rimorsi. Non aveva con sé le monete d’oro rubate nella grotta! Le monete che aveva nel paiolo erano le stelle che aveva raccolto per la sua bella. Camminava nella notte sul sentiero che attraversava l’altopiano, ma gli pareva di star attraversando il firmamento come se fosse un prato, e lì per lì inventò un'altra canzone, con la quale pensava si sarebbe presentato a Trava.
Ma quando arrivò alla capanna, lei non c’era. Bussò. Chiamò. Fece forza sulla porta e riuscì ad entrare, ma lei non c’era. Si chiuse dentro e prese ad aspettare. Trascorse l’intera giornata e venne di nuovo notte, ma lei non era ancora tornata. Allora Avaglio si rese conto che non sarebbe tornata mai più. Con il suo gesto estremo invece di conquistarla l’aveva persa definitivamente. Chissà dove era andata pur di non vederlo mai più…
Il Gan innamorato si decise allora per il gesto veramente estremo. Si sarebbe lasciato morire nella casa di Trava, per poterla incontrare almeno nel mondo degli invisibili.
Scavò una buca in corrispondenza del focolare che c’era in mezzo alla capanna, e vi nascose il tesoro di monete d’or e si mise in attesa…
Quando dopo alcuni giorni al villaggio s’accorsero della scomparsa di Trava, forzarono la porta della capanna ma non trovarono nulla. La bella ragazza si era come volatilizzata…Dal momento che anche i Gans lamentavano la scomparsa di Avaglio, il Druido sentenziò che Trava era stata trasformata in spirito dal potere malefico del Gan che innamorato di lei non la voleva dividere con nessuno…
La capanna restò vuota per tanto tempo. Tutti avevano paura dello spirito che aleggiava nella Casa di Trava e se ne tenevano alla larga… Poi con il passare del tempo, ci si dimenticò della storia della bella ragazza. Il nome di Trava, dalla casa passò a tutto il villaggio. Del tesoro nascosto dal Gan, non se n’è più saputo nulla. Chissà che non sia ancora nel terreno dove sorgeva la capanna e dove oggi sorge l’osteria al Gan!!!

domenica 13 gennaio 2008

Lis Vinadis di Arta.



Tutti coloro che s’interessano della storia della Carnia sanno, o dovrebbero sapere, che una volta tra Arta e Sutrio c’era il lago di Soandri. Il pianoro di Alzeri era franato nell’alveo del torrente But, creando una diga che aveva formato il lago. Una volta… ma quando?..
Il Grassi che oltre ad essere stato uno storico era un prelato e che quindi può essere senz’altro considerato degno di fede, sostiene che si trattava del Medioevo e precisamente dell’XI secolo. Per essere nato a Formeaso, a meno d’un chilometro dalla diga in questione, gli si dovrebbe poter credere anche quando, a conferma, ricorda che ai suoi tempi (siamo nel settecento) si vedevano ancora a Sutrio ai piedi della rocca sulla quale sorge la chiesa di Ognissanti gli anelli ai quali venivano agganciate le barche.
“Panzane!” dice invece il Marinelli nella sua Guida della Carnia facendo eco al Gortani. Il lago c’è stato effettivamente come risulta dalle indagini geologiche, ma qualche migliaio di anni fa, nel periodo appena postglaciale.
Forse c’era ancora quando l’uomo arrivò in Carnia, almeno seimila anni prima di Cristo. Quei primi uomini videro il torrente But rompere la diga, svuotare il lago e riprendere il suo corso naturale, e raccontarono ai loro figli che c’era una volta un lago.
Quando? Una volta, non molto tempo fa…
I figli lo ripeterono ai figli ed ai nipoti. Così, dopo ottomila anni, anche mio nonno, quando ero bambino, mi raccontava che una volta, come fosse poco tempo fa, a Sutrio c’era il lago di Soandri.
Ma l’origine del lago nel racconto di mio nonno era molto più complessa e fantasiosa di come la riporta il Grassi che pure quanto a fantasia nella sua storia della Carnia dimostra d’averne tanta da riuscire a riempire tutti i buchi neri della storia ufficiale, fino a fare di Zuglio la capitale del Friuli longobardo.
Una frana dal monte Rivo trascinata dal torrente Radice lungo il pendio del falsopiano di Alzeri fino a sbarrare la corrente del fiume But, se non è un fatto storicamente provato è comunque plausibile. Ma per mio nonno gli eventi si erano svolti in modo ben più complesso, le cose erano andate ben diversamente…
C’era sta una gara tra San Pietro, salito da Roma fino in Carnia per costruirsi la chiesa sul costone sovrastante il municipium romano di Iulium Carnicum, e il diavolo, che gli voleva impedire la costruzione di quell’avamposto cristiano in Carnia. Gli uomini che abitavano quelle montagne, a partire dall’invidia, avevano tutti i sette vizi capitali, ed anche qualcuno in più, quindi erano tutti suoi, sosteneva il diavolo. San Pietro, dal canto suo, ribatteva che anche per i barbari carni era morto in croce in Palestina il figlio di Dio.
Il diavolo ce l’aveva in particolare con gli abitanti di Soandri, il paese che sorgeva ove oggi c’è il Comune di Sutrio, perchè si erano convertiti in massa al cristianesimo. C’era il rischio che il loro esempio fosse seguito dagli altri villaggi della Carnia, anche perchè, tutti potevano facilmente constatare quanto grandi fossero i vantaggi derivati dalla conversione. Negli altri paesi (allora come ora!) andava tutto storto, anzi, a dir il vero, sempre peggio, pioveva quando avrebbe dovuto far bel tempo, e c’era un sole da spaccare le pietre quando la campagna avrebbe avuto bisogno di pioggia. Per i cristiani di Soandri invece, tutto andava per il verso giusto. Quando pregavano che piovesse, Pietro interrompeva il suo lavoro di muratore, faceva raccogliere due o tre nuvole sopra il paese e subito si metteva a piovere. Quando la gente lo pregava che facesse beltempo, con gli scongiuri di San Pietro, il sole riusciva subito ad aprirsi un varco tra le nuvole, proprio sopra il paese.
Il diavolo non sapeva più che pesci pigliare. Pietro che di pesci s’intendeva se la rideva e continuava ad andare avanti con la sua costruzione, pietra dopo pietra, mentre il diavolo correva su e giù per la Carnia facendo brontolare il tuono, scagliando terribili saette sugli alberi più grandi e più belli della valle, ed ogni tanto scardinando persino le montagne con terremoti spaventosi.
A dire di mio nonno avrebbe sacraboltato tutta la Carnia, che tradotto dall’italofriulano vorrebbe dire che l’avrebbe messa sottosopra , se non gli fosse venuta in soccorso sua madre con una idea geniale. “Fai franare il monte di Rivo nel fiume e vedrai!” gli disse. Satana che per essere maschio non arrivava alla perfidia di sua madre, sulle prime non capì il suggerimento, ma ubbidiente come era verso sua madre, malgrado fosse un diavolo, diede subito ordine alle streghe di far rotolare dei massi dalle falde del monte di Rivo, fino a sbarrare il corso del torrente But.
“Meglio di così!…” pensarono gli abitanti di Soandri, che il giorno dopo si trovarono un piccolo lago, appena sotto il paese. “San Pietro per non perdere le abitudini s’è costruito un piccolo lago, ed ora insegnerà a pescare anche noi!…”
S’accorsero del trucco del diavolo solo la prima volta che chiesero a Pietro di far piovere. Mentre scrosciava la pioggia, l’acqua del lago cresceva, cresceva…e avrebbe rapidamente sommerso tutto il paese… “Torni il sereno!” dovettero supplicare in fretta. Appena in tempo!.. perchè l’acqua aveva già invaso le case più basse. Ma così, per evitare di allagare il paese, non poterono più chiedere a San Pietro di aver la pioggia. La valle in breve si inaridì, non ci fu più foraggio per gli animali, ingiallirono e si seccarono i campi di granoturco di patate e di fagioli, e si diffuse una terribile carestia.
“Salvaci!”, chiedevano gli abitanti di Soandri a S.Pietro, ma neppure il primo degli apostoli poteva qualcosa contro il maleficio delle streghe del Landri che aveva reso inamovibili i massi collocati a formare la diga. “E in effetti”, precisava mio nonno, “i sassi restarono lì a formare il lago finchè le streghe furono eliminate dalla Santa Inquisizione”. Al povero Pietro non restò altro da fare che, ( in modo, a dir il vero, molto poco cristiano!), ricambiare maleficio con maleficio, sortilegio con sortilegio.
“In eterno raschierete con le vostre mani le rocce del monte di Rivo”, gridò l’apostolo alle streghe, tanto arrabbiato che gli tremavano persino i peli della barba. “E sono ancora lì che con le mani grattano il monte” concludeva mio nonno. In realtà, anche oggi, il monte sembra quasi si stia sbriciolando a poco a poco lasciando emergere, ove la roccia è più consistente, dei costoni che ricordano dei torrioni o dei campanili. Sono appunto i Torrioni (detti anche campanili) dei Lander, meta turistica molto frequentata sopra il paese di Arta Terme.
Pensavo a tutte queste cose e soprattutto al racconto di mio nonno, la sera dell’ultima mia salita alla statua della Madonna dei Lander, che una devozione recente ha messo a guardia di uno dei torrioni. Troppo stanco, facevo fatica ad addormentarmi e riflettevo sullo strano modo di pensare dei friulani. Nella nostra lingua non c’è il termine “futuro”, mentre il termine “passato” diventa un “una volta” imprecisato e senza tempo, un termine che schiaccia l’uno sull’altro secoli e millenni finendo per far convivere San Pietro, costretto a costruirsi da solo la chiesa, con le streghe chiamate a costruire la diga del lago di Soandri. Il termine “una volta”, è come un quadro senza tempo sul quale ognuno lascia una pennellata, finché si modifica l’impianto originario e il quadro cambia, facendo apparire nuove figure, nuove scene.
Anche la leggenda del racconto di mio nonno, pensavo, forse si era sovrapposta ad altre che si raccontavano prima, perché anche prima del cristianesimo qualcuno aveva certamente sentito il bisogno di trovare una spiegazione per la stranezza del monte di Rivo, regolare e boscoso sugli altri versanti, roccioso, scosceso e friabile, su quello che guarda alla chiesa di S.Pietro.
Mi addormentai con questo pensieri e mi sognai di star salendo di nuovo ai torrioni dei Lander. Ad accompagnarmi nel sogno, invece di Gianluca che mi aveva seguito durante il giorno sbuffando contro il mio cane ed imprecando contro le vespe che sembrava l’avessero preso in particolare simpatia, c’era ora mio nonno.
“Vieni!”, mi diceva, dandomi fretta e prendendomi in giro per la fatica che facevo a salire i tanti tornanti della mulattiera, che da Alzeri sale ai prati posti a corona attorno alla vetta rocciosa del monte di Rivo. Di prati, in realtà, durante il giorno ne avevo visti soltanto due, stretti attorno a stavoli diventati ormai fatiscenti nella fatica inutile di difendersi dall’avanzare inarrestabile del bosco. Nel sogno invece, tutto il versante era a prato. E su, dove ora c’è l’ultimo stavolo, c’era persino un villaggio di capanne. E più su ancora… sul pianoro dal quale si domina la valle, ove oggi c’è il bivacco, c’era una capanna più grande delle altre.
Stavo riprendendo fiato sul sentiero che finalmente, dopo tanto salire, si piega in orizzontale, attraversando il pianoro ondulato, quando vidi uscire dalla grande capanna un vecchio vestito di bianco. Bianchi aveva anche i capelli, che gli scendevano lunghi sopra le spalle, bianca la lunga barba che gli ricopriva il petto fino alla cintola.
“Mandi Lander!” lo salutò il nonno come si trattasse d’un vecchio amico. E senza alcuna presentazione, come se da tempo mi stesse aspettando, il vecchio prese a raccontarmi di come lui fosse il Druido, il capo del villaggio, di come attorno alla sua capanna ci fosse il cimitero, con i morti sepolti sotto i massi sparsi sul pianoro, attorno alle tre grandi pietre ove si celebravano i riti in onore del Dio Beleno. Notai che nel sogno le tre pietre erano molto più alte di come si vedono adesso. “Col tempo il terriccio del bosco le ha di certo in parte ricoperte…”
Svegliandomi, mi ricordo d’aver riportato dal sogno questa notazione banale sulle pietre e invece purtroppo di non avere alcuna memoria delle tante cose che il Druido Lander mi aveva raccontato e spiegato, durante le ore in cui eravamo stati seduti assieme a guardare la valle, attendendo il tramonto. La luce del risveglio che spesso cancella interamente la memoria di ciò che abbiamo sognato, non era tuttavia riuscita ad eliminare dalla mia mente il ricordo di ciò che nel sogno avevo potuto vivere e vedere, dopo aver lasciato Lander il Druido, al calare delle prime ombre della sera.
Era la notte del plenilunio di mezza estate, per capirci, per noi la notte di San Giovanni, il 24 giugno, anche se il nostro calendario basato sui giorni invece che sulle notti, e quindi più attento ai solstizi che ai pleniluni, non fa coincidere la notte di San Giovanni con il plenilunio. Il chiarore della luna era così vivo, che della notte restava soltanto un’ombra leggera, a coprire come un velo la valle. Si distingueva ogni cosa, come fosse giorno. Anche lontano, in quella luce irreale si poteva riconoscere chiaramente ogni montagna, ogni valle, ogni villaggio fin giù verso la pianura. Ma una volta individuati, tutti questi punti, in quella luce magica, parevano riferimenti d’un mondo diverso, in una diversa dimensione. Così pure d’un altro mondo sembrava in fondo alla valle, il letto bianco di ghiaie del torrente But, segnato dal serpente dell’acqua che brillava d’argento al riflesso dei raggi della luna.
D’un tratto, dal luccicore del torrente presero a staccarsi delle scintille di luce, una miriade di lucciole, come è normale per la notte di San Giovanni. L’insieme dei punti luminosi prese lentamente a sollevarsi ed a salire infittendosi a formare una sorta di enorme sciame. La nuvola di luce s’alzò quindi come un refolo di nebbia dopo il temporale, distendendosi sul bacino del rio Ràndice per poi diffondersi ed occupare tutto il sovrastante anfiteatro dei torrioni del Lander. I punti di luce, salendo ed entrando tra le rocce, erano diventati sempre più grandi e si erano disposti in file sovrastanti, come se fossero veramente sulle gradinate di un anfiteatro.
Guardando dai bordi, ove mi ero avvicinato assieme a tutti gli altri abitanti del villaggio, ora si vedeva chiaramente che non si trattava di lumi. Erano invece giovani donne bellissime, con lunghi capelli biondi, risplendenti nei loro vestiti bianchi, come fossero fatti di luce.
“Sono le Vinadie”, prese a spiegarmi mio nonno, “le agane o fate dell’acqua di tutta la valle che si ritrovavano per la festa del plenilunio d’estate richiamate da Lander, il Druido di Soandri”. Tutto l’anfiteatro era ormai fatto di luce e nella luce si formò un po’alla volta un suono, come un respiro uscito dalla terra, prima debole, poi sempre più forte. Era una canzone, una nenia... Non ne capivo le parole, ma la melodia m’era familiare, con un contrappunto di suono di campane, che usciva proprio dai torrioni come fossero veramente dei campanili con dentro, nascoste nelle celle, le campane.
Portata dal vento la musica si sciolse lungo la valle, facendo accendere come d’incanto al suo passaggio dei grandi fuochi in corrispondenza d’ogni villaggio, d’ogni capanna sparsa sulle montagne. Ed anche gli abitanti di Soandri, che con me si erano disposti a corona ai bordi dell’anfiteatro, avevano nel frattempo acceso ognuno una torcia, formando una treccia di luce rossa, che bordava di porpora la bianca luce delle Vinadie. Sul colle di fronte, ove ora sorge la chiesa di S.Pietro, s’accese infine un ultimo falò, più grande di tutti, con rosse lingue di fuoco che salivano fino alle stelle.
Ricordo d’aver chiesto al nonno il significato di quell’ultimo grande fuoco, ma la domanda è l’ultimo ricordo del sogno. Sulla risposta mi sono svegliato, senza poterla ricordare, come non ricordo i discorsi di Lander il Druido.
I sogni sono purtroppo così, si ricordano a tratti, nel risveglio si perdono le cose più importanti. Restano soltanto dei lampi, perchè da lampi di singole suggestioni nascono i sogni. Avevo letto nei cartelloni per i turisti che il lago di Soandri non è esistito in epoca storica e che vengono chiamate “vinadie” le strisce che disegnano trasversalmente le faglie dei Lander. M’era venuto di pensare che il nome Soandri è così simile al Sorantri di Raveo ove è stato scoperto un villaggio dei Celti e quindi nel sogno avevo portato i Celti anche sul monte di Rivo, dove peraltro, se è vero che amavano i luoghi dai vasti orizzonti, non potevano non essersi insediati.
Non saprei invece per quale contorto modo della mia mente di fare gli accostamenti, nel sogno le vinadie fossero diventate delle fate, mentre nei cartelloni illustrativi avevo letto che, secondo la leggenda, le faglie del monte erano frequentate dai dannati. Forse in questo sovrapporsi delle fate alle streghe, delle fate ai dannati, stava tutta l’originalità del mio sogno.
Forse in questa sovrapposizione si poteva persino, in qualche modo, trovare la risposta alla domanda che mi ero posto prima di addormentarmi sul significato del “c’era una volta”. Una volta, quando?... Non ha importanza! Il fiume della Carnia non può vedere mai il mare, ma il mare vive dell’acqua del fiume della Carnia. L’acqua ch’è scesa giorno dopo giorno, anno dopo anno, assumendo persino nel tempo nomi diversi, forma ora un unico mare, un unico oceano.
Come nell’oceano-mare non si può distinguere l’acqua del fiume, così l’uomo del fiume non potrà mai leggere la storia dell’oceano-mare nel quale s’è disciolta anche la storia dei Celti, che hanno abitato le montagne del Friuli.

sabato 12 gennaio 2008

Le streghe del Tenchia.


In Carnia, come in genere in tutti i paesi di montagna, fino a non molto tempo fa, si viveva soprattutto di allevamento del bestiame. Attorno al villaggio c’erano i prati coltivati dai quali si ricavava il foraggio per l’inverno. Più in alto c’era la “mont”, la montagna, cioè i prati di mezza o di alta montagna, con gli stavoli nei quali si ricoveravano le mucche prima o dopo il periodo dell’alpeggio. Il modo di utilizzare la “mont” variava da paese a paese. In alcuni paesi gli stavoli erano completati da una piccola abitazione nella quale ci si fermava a dormire durante il periodo della fienagione, in altri c’era solo la stalla ed il fienile. Dove la “mont” era abbastanza vicino al paese lo stavolo si riduceva al fienile, (la staipe), dove veniva raccolto il fieno che poi veniva portato alla stalla in paese durante l’autunno o la primavera. Il Tenchia, la “mont” del paese di Cercivento era l’unica a non avere né stavoli né staipe, perché a Cercivento a differenza di tutti gli altri paesi c’era l’usanza di portarsi il fieno in paese, di giorno in giorno, d’estate nel periodo delle fienagione.
Non era perché quelli di Cercivento fossero meno organizzati o meno intelligenti degli altri. E’ che a Cercivento si guardava con paura al Tenchia! Se non fosse stato perché del fieno dei suoi prati si aveva assolutamente bisogno, per mantenere le bestie e far vivere la famiglia, tutti avrebbero fatto volentieri a meno d’andare a falciare sulla montagna. Era una fatica improba doversi caricare i fasci di fieno sulla slitta e scendere fino in paese per poi risalire con la slitta in spalla sotto il sole di luglio, due o tre volte nello stesso giorno!
Ma di fermarsi lassù la notte non era il caso di pensarci! E non era neppure il caso di lasciare lassù il fieno a lungo, sarebbe stato stregato…Si perché sul Tenchia ballavano le streghe! Nessuno le aveva viste. Ma tutti avevano potuto constatare di persona i cerchi che avevano lasciato nell’erba con i loro girotondi. Sul pianoro che prende il nome appunto di piano delle streghe capitava spesso alla mattina, dopo le notti nelle quali avevano infuriato i temporali, di vedere delle strisce di erba bruciata a forma di cerchio.
Era come se ci fosse stato un girotondo di tante persone, e l’erba sotto ai loro piedi non solo era stata calpestata ma si era avvizzita, bruciacchiata.
Non c’era altra spiegazione possibile che nel girotondo delle streghe!
“Deve esserci un’altra la spiegazione! Per forza! Non fosse altro perché le streghe non esistono”, continuava a ribattere Pacifico. I suoi compaesani lo prendevano per pazzo e lo lasciavano dire. Pacifico che da giovane aveva fatto per molti anni l’emigrante in Romania, insisteva spiegando che anche lì aveva potuto constatare di persona come tutte le storie sul conte Dracula, fossero sole delle favole.
Ma se anche quella dei vampiri poteva essere solo una favola, perché non poteva corrispondere a verità la storia delle streghe, confermata peraltro da quei cerchi nell’erba?
Pacifico che a dispetto del nome era un uomo deciso e cocciuto si mise in testa di sfatare la leggenda. Visto che con le parole e con il ragionamento otteneva soltanto il risultato di essere preso per pazzo, decise di passare ai fatti: si mise a costruire sul Tenchia quello che oggi si chiamerebbe uno chalet. Cominciò i lavori a primavera. Da solo. Perché nessuno aveva voluto lasciarsi coinvolgere in quella che, si capiva, voleva essere una sfida alle streghe, da bravo muratore quale era, in un paio di mesi tirò su una casetta niente male. Ai primi di giugno cominciò ad abitarvi.
In paese evidentemente non si parlava d’altro, tutti l’avevano sconsigliato, avevano cercato di fermarlo, perché di certo si stava mettendo in un brutto guaio Ora poi che era anche andato ad abitare sul Tenchia, tutti s’aspettavano di giorno in giorno di sapere quale sarebbe stata la vendetta delle streghe.
Anche a Cercivento come a Paularo si raccontava (farsi raccontare qualcosa da Pacifico)…
A dispetto di tutti i racconti a Pacifico tuttavia non capitava niente. Scendeva in paese ogni due o tre giorni, ma parlava soltanto dei tramonti incantevoli e delle notti piene di stelle che si potevano contemplare da lassù. I paesani tuttavia erano certi che la loro attesa non poteva andare delusa, era solo questione di tempo… ed infatti un mattino allo spuntar dell’alba, dopo una notte nella quale c’era stato un fortissimo temporale e sul Tenchia s’era scatenata un iraddidio di fulmini, lo videro arrivare trafelato.
“Le ho viste!”
“Cosa? Le streghe?”
“No, le Agàne”
“Cosa sono?”
“Non so”
Era l’ora in cui dalle case stava uscendo la gente per andare a falciare in montagna, e in un momento tutto il paese fu attorno a lui che raccontava.
“Avete visto il temporale?”
Certo! Non s’erano mai visti tanti fulmini! Tutte le donne s’erano alzate ad accendere un ramoscello d’ulivo benedetto sulla porta di casa, e avevano guardato al Tenchia che pareva incendiarsi ed a lui lassù che aveva fatto la pazzia di fermarsi a dormire in mezzo all’incendio.
“Beh! Lassù ad ogni fulmine la montagna pareva tremasse come colpita da un terremoto. Avevi l’impressione, si potesse squarciare, andare in pezzi…”
Pacifico era sempre stato bravo nel raccontare, e come i cacciatori sapeva far correre le lepri anche se erano soltanto conigli! Ma certo non doveva essere stato molto simpatico trovarsi in mezzo a tutti quei fulmini!
“Non esagero! Era un finimondo! Guardavo dalla finestra e devo dire che avevo paura. Non delle streghe, ma d’un fulmine che mi cadesse sulla casa e mi incenerisse. Avevo paura di morire! E ad un certo punto mi convinsi d’essere già morto e d’essere già nell’aldilà, quando un fulmine più forte degli altri si scaricò proprio sul prato davanti a me, ruotando su se stesso come una matita che disegna un cerchio. Nel tempo fu un attimo, ma era come se fossi già nell’eternità e quel attimo durò un tempo infinito. Il fulmine mi si trasformò in una sorta di processione di angeli o di fate non capivo bene, che scendeva dal cielo e si disponeva a cerchio sul prato.
Come il tempo era diventato eternità, così lo spazio era diventato infinito. Era un cerchio, ma era costituito da una infinità di punti di luce, ed ogni punto di luce era in realtà una bellissima donna. Il cerchio prese a muoversi vertiginosamente lasciando uscire, come se fosse un disco, una melodia dolcissima. Cantavano. Ma non riuscivo ad afferrare il senso delle parole. Capivo soltanto in una sorta di ritornello che dicevano “siamo le Agane”…”

Quando il racconto di Pacifico giunse finalmente alle orecchio di Don Mattia il parroco di Sutrio che era un uomo colto e che sapeva tutto sulla storia della Carnia, il vecchio prete si precipitò a Cercivento per sentirlo raccontare di persona.
“Cosa sai delle Agane?”
“E’ un nome, se l’ho ben capito, che ho sentito per la prima volta, stanotte sul Tenchia”.
E lei, don Mattia?”
“E’ il nome delle fate dell’acqua. Nelle tradizioni di tanti paesi della Carnia si racconta della loro presenza. Ma prima del Concilio di Trento. Dopo nessuno ne ha mai più viste. Nessuno ne ha mai più parlato.”
Don Mattia era un uomo di fede, ma a lungo andare a forza di discutere con i suoi parrocchiani di Sutrio, era diventato anche un uomo di scienza. Come uomo di fede avrebbe dovuto limitarsi a dare a Pacifico una buona benedizione, come uomo di scienza voleva invece riuscire a capire. Se anche quel cristiano si fosse inventato tutto, come aveva potuto inventarsi persino quel nome, che diceva di non aver mai sentito prima! Gli chiese così se poteva passare la notte con lui lassù, ad aspettare il prossimo temporale.
Si era alla fine di giugno, il periodo in cui in Carnia i temporali si ripetono quasi quotidianamente. Infatti la sera stessa sul Tenchia ci fu un infuriare di fulmini ed un ribollire di tuoni ancora più spaventoso del finimondo della notte precedente.
Pacifico e don Mattia stavano alla finestra quando ad un certo punto Pacifico gridò:
“Le vede”
“Dio mio, perdonami, mormorò don Mattia, sono proprio le streghe. Sono orribili!”
“Ma come orribili non vede che sono bellissime”
“Orribili!” continuava a ripetere stralunato don Mattia.
“Ma come orribili?” ripeté Pacifico e quasi a convincerlo prese la mano del prete scuotendola.
Al contatto con la mano di don Mattia la scena cambiò improvvisamente anche per lui. Quelle che aveva visto come bellissime fanciulle. erano diventate come d’incanto vecchie storpie con il viso rinsecchito che pareva quello delle mummie di Venzone.
All’alba, visto che comunque dovevano salire a falciare, il paese era tutto davanti alla casetta di Pacifico a sentire come era andata.
Sentendo che anche don Mattia se non confermava la versione di Pacifico, diceva comunque d’aver visto le streghe, ed a sentire il discorso Pacifico delle fate che s’erano tramutate in streghe quando aveva preso la mano del prete, gli abitanti di Cercivento non sapevano cosa pensare, se non mettersi a recitare scongiuri “testiculis tactis” come se fossero litanie…
Don Mattia chiese loro di non dir nulla a nessuno, almeno per quel giorno. Si sarebbe fermato ancora una notte a dormire sul Tenchia per avere conferma di quello che aveva visto, e poi ne avrebbe parlato con i suoi superiori e con il Vescovo.
La notte seguente era quella di S.Giovanni. Sul Tenchia si scatenò l’inferno. La gente di Cercivento guardava in su e pregava A fulgure et tempestate, ripeteva in una litania infinita, liberainus domine. Ad un certo punto al piano delle streghe s’accese un enorme falò. Non c’erano dubbi” pensarono tutti: era lo stavolo di Mattia che bruciava colpito da un fulmine…
All’indomani recuperando tra le macerie i resti di don Mattia e di Pacifico, li trovarono affiancati vicino alla finestra. Chissà se avevano rivisto la scena? Chissà se anche don Mattia aveva visto le Agane?
Comunque sia andata, se prima gli abitanti di Cercivento avevano dei dubbi se costruire o meno i fienili sul Tenchia, dopo la vicenda di Pacifico si confermò la convinzione che comunque quella fosse una montagna stregata.
Finchè non si arrivò ai giorni nostri, quando nessuno crede più a niente e tutti vedono solo quello che fa loro comodo. Nel frattempo sulla vetta del Tenchia sono stati posti dei ripetitori per i telefoni e le televisioni. I soliti ambientalisti, a suo tempo, si erano anche opposti sostenendo che i campi magnetici avrebbero inquinato l’erba dei prati. Ma dato che non c’era più nessuno che andava a falciare e raccogliere il fieno sul Tenchia, la protesta si smorzò subito davanti alle esigenze del progresso. Sono stati collocati degli enormi tralicci, forse poco estetici, ma protetti da potenti parafulmini che attraggono tutti i fulmini della montagna.
A Cercivento si sostiene che è per merito del sacrifico di Pacifico e di don Mattia che con la loro morte hanno “scongiurato” le streghe. A Sutrio dove sono più laici, si sostiene che è per effetto del campo magnetico che ha allontanato i fulmini. Sta di fatto, che le streghe sul Tenchia non ci sono più. Dormire sulla montagna non fa più paura a nessuno. Anzi, i primi che vi hanno dormito, hanno raccontato di benefici influssi. Ai maschi pare di sentirsi dentro il richiamo delle bellissime Agane ed hanno così delle porformaces incredibili. Quelli di Sutrio continuano a dire che è solo l’effetto del magnetismo dei tralicci. Sia come sia, pare che a Cercivento si registri il più alto tasso di natalità in Carnia.